Le pesche tipiche calabresi

Pesca al pescespada

Nello Stretto di Messina e nella Costa Viola si è sviluppata nel corso dei secoli una pratica di pesca unica in tutto il mondo, la caccia al pesce spada con l’utilizzo dell’arpione. Le origini della pesca al pesce spada nel bacino del Mediterraneo si perdono nella notte dei tempi. In particolare nello Stretto di Messina ci giungono notizie della pratica di questo mestiere dai primi abitanti dello Stretto, ovvero Tirreni e Greci. Il pesce spada veniva pescato, infatti, nello Stretto di Messina già ai tempi di Omero intorno al X-IX secolo a.C., praticata dai "Tirreni" che all'epoca dominavano il Mediterraneo occidentale. Una pesca arcaica, quindi, o per meglio dire, una caccia per le modalità con le quali si svolgeva.

L'imbarcazione tipica di questa pesca, chiamata "luntri", veniva costruita nei cantieri artigianali di Ganzirri e di Scilla, in legno di gelso e di ilice, fatta quasi a modello del pesce spada e dipinta di nero all'esterno per somigliare ancor più allo stesso. Era lunga all'incirca sei metri, larga un metro e mezzo, portava quattro vogatori in grado di sviluppare una velocità sorprendente. Al centro aveva un esile albero, alto non più di tre metri, che sorreggeva l'avvistatore "da breve": il "falere". Il primo avvistamento veniva fatto dai "vandiaturi" appostati sui promontori, presso le torri di avvistamento, o presso le “poste” lungo i terrazzamenti a picco sul mare. Appena l'avvistatore scorgeva dall'alto la traccia del pesce spada, segnalava con un panno bianco, con segni e grida convenzionali, la presenza e la direzione della preda. Iniziava così la "caccia". Sull’imbarcazione il comandante era "u lanzaturi", che stava a poppa ed era anche l'arpionatore, ovvero il solo legittimato a scagliare contro il pesce spada l'asta di legno con una punta d'acciaio munita di alette: "u ferru".

Questa tecnica si è sviluppata nello Stretto di Messina sfruttando il comportamento del pesce spada in funzione delle peculiarità dell’area. Con l’avanzamento delle tecnologie anche questa pesca tradizionale e unica si è evoluta. Il “luntri” è stato sostituito dalla moderna “passerella”. Si tratta di un’imbarcazione motorizzata composta di una passerella lunga fino a 50 m, sulla quale si posiziona l’arpionatore o “lanzaturi”, e di una antenna di avvistamento che raggiunge anche i 25 metri di altezza da cui gli “ntinneri” (avvistatori) avvistano i pesci e manovrano l’imbarcazione. La pesca si svolge dalla tarda primavera all’estate (maggio-agosto) in corrispondenza del periodo di riproduzione (l’amore) del pesce spada. L’azione di pesca è del tutto particolare: gli “ntinneri” scrutano le parti di mare circostanti la barca dall’antenna, una volta individuata la preda si dirigono verso di essa a massima velocità; il “lanzaturi” sull’estremità della passerella, appena il pesce è abbastanza vicino da poter essere colpito, sferra il colpo con l’arpione che è legato ad una corda molto lunga raccolta in apposita cestaLa preda colpita comincia così la sua fuga. Qui comincia la fase del recupero che, nel caso in cui si peschi su bassi fondali deve essere forzato poiché la preda cercando il fondale marino potrebbe incagliarsi o riuscire a liberarsi dell’arpione. Le “traffinere o ferri” sono in acciaio ed hanno una forma a U alle estremità della quale sono presenti gli arpioni. Gli arpioni si tramandano di fiocinatore in fiocinatore, solitamente di padre in figlio, e, i proprietari di questi li conservano come reliquie. Una volta issato a bordo il pesce viene effettuato un rito scaramantico, la cui derivazione è oggetto di numerose leggende. Si tratta della cosiddetta “cardata da cruci”, che consiste nel graffiare la faccia del pesce con le unghia della mano, sia in senso verticale che orizzontale, creando cosi il tipico disegno caratteristico che si può ritrovare solo sugli spada provenienti da questo tipo di pesca e dallo Stretto di Messina. La preda principale della pesca con le passerelle è il pesce Spada (Xiphias gladius), altre prede comunque vengono catturate, come l’aguglia imperiale (Tetrapturus belone) e il tonno rosso (Thunnus thynnus). La zona di pesca comprende tutto lo Stretto di Messina ed è suddivisa in poste che, dal 1902, nelle Capitanerie di porto di Messina e Reggio vengono sorteggiate per garantire un uguale sfruttamento da parte delle varie imbarcazioni che praticano la suddetta pesca.

Pesca alla costardella (img 11)

Una caratteristica pesca è anche quella delle costardelle, praticata nei mesi primaverili ed estivi con l'uso della ravastina (in dialetto raustina), rete a circuizione simile a quella un tempo usata per le alalonghe. Le costardelle viaggiano in banchi e, dopo l'avvistamento, sono catturate con una tecnica precisa e collaudata. Tale pesca veniva effettuata con l'ausilio di una barca principale (raustina) e di una più piccola (untru), usata come punto di partenza e di arrivo nella circuizione. Un'altra barca (bacca 'i stagghiu) veniva usata per tagliare la strada al banco e da questa venivano lanciati sassi bianchi per impaurire e fermare la corsa dei pesci. La ravastina veniva calata alla massima velocità possibile, fino a circuire l'intero banco, dal bordo della barca principale. Quindi si forma un recinto circolare della circonferenza di circa 100 metri (ovvero la lunghezza della rete) che ha visibile in superficie il “suvaratu” (ovvero una volta pezzi di sughero legati alla rete, ora anelli di polistirolo ad alto galleggiamento) ed in profondità ha i piombi. «Entrambi gli estremi della rete, a forza di braccia, venivano issati dentro le due barche, facendo sì che gradualmente il cerchio si restringesse. La conformazione della ravastina era tale che, mentre essa veniva tirata, la parte profonda (per intenderci, quella a cui sono fissati i piombi) andava restringendosi prima, rispetto alla parte galleggiante, per cui veniva in parte preclusa ai pesci la via del fondo. Il sacco veniva quindi issato tirando contemporaneamente la fune coi piombi (ghiummiàri) ed il “suvaratu”. Mano a mano che affioravano in superficie le costardelle venivano catturate col “coppo” (retino) e deposte nei vasconi con acqua di mare.

Pesca al pesce sciabola (img 12)

Altra pesca della Stretto di Messina che si riallaccia a remote tradizioni è quella delle spatole, pesci dalle carni bianche e delicate. Si catturano col «conzo», cioè col palangaro, costituito da una lunga lenza da fondo munita di qualche centinaio di braccioli con ami, posti a opportuna distanza. L'attrezzo viene calato in determinate zone dello Stretto, dato che la spatola si rinviene a grandi profondità in vere e proprie «fosse», profonde svariate centinaia di metri. La spatola ha forma lunga, piatta e argentea, «quasi una lama metallica» e a causa dei suoi denti aguzzi che troncavano di netto il filo con l'amo, la cattura era sempre stata impresa ardua. Verso i primi dell'Ottocento, tuttavia, un ingegnoso pescatore pensò sostituire alle parti della lenza cui sono attaccatigli ami, dei fili di rame, e d'allora in poi la spatola figurò quotidianamente tra i pesci del mercato. A quell'epoca la lenza adoperata formava un insieme di 15 fili di rame, ciascuno fornito di tre ami legati con il filo di intestini di capretto o pelo di Spagna, questo legato a sua volta con una cordina a un pezzo di piombo da uno a due chilogrammi. Tale complessa tecnica di cattura pare sia stata introdotta nella seconda metà dell'Ottocento, su indicazione di pescatori dello stretto, anche a Palermo e nel Napoletano, quando i marinai di Torre del Greco frequentavano lo Stretto per la pesca del corallo. Al giorno d'oggi la cattura delle spatole risulta assai semplificata dall'uso dei moderni materiali sintetici; basta adoperare filo di diametro e consistenza adeguata per ottenere lenze in grado di resistere anche ai denti aguzzi delle spatole senza necessità di ricorrere a terminali di rame o d'acciaio.

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