La cultura marinaresca dello Stretto di Messina e della Costa Viola
La cultura marinaresca dello Stretto di Messina e della Costa Viola, presenta come in ogni area del Mediterraneo, peculiarità tipiche di ogni litorale ma con un comune valore di base: l’amore verso il mare.
Il mare è l’ambiente affascinante ed allo stesso tempo ostile e severo per eccellenza, al quale i pescatori sono legati da un rapporto di profondo rispetto. Il mare, con la sua fauna ittica, è fonte di sostentamento ed allo stesso tempo, nella sua misteriosa immensità , è l’emblema di Madre Natura. La natura è spesso incomprensibile e imprevedibile con tutto ciò che ne deriva: a giornate di sereno, in cui le imbarcazioni si stagliano numerose all’orizzonte, si alternano burrascose e rischiose battute di pesca col mare grosso. Nonostante sia dura la vita per le popolazioni costiere, il pescatore accetta da sempre queste condizioni. Anch’egli deve sottostare al volere divino, così come la sua preda: il pescespada. Il rapporto pescatore-pesce è molto particolare: il pesce non è vittima, ma preda.
Orgogliosamente, vige infatti un particolare sentimento nei confronti del pescespada, il quale è vittima solo di quel processo, quasi naturale ed unico, governato dalle severe leggi della natura, tale da rendere sia esso che il suo cacciatore, appartenenti ad un unico sistema, alla naturale catena alimentare. Il pescespada, per tradizione si “caccia” con l’arpione. La caccia o arte del pescespada ha origini antichissime. E’ infatti di origine fenicia l’imbarcazione tipica utilizzata per la caccia al pescespada fino a qualche decennio fa, denominata luntri, oggi sostituita dalle moderne passerelle. Così come antichissimo è il tipico gergo, ormai scomparso, utilizzato dagli avvistatori sulla Costa Viola, appostati sui promontori, presso le torri di avvistamento o presso le “poste” lungo i terrazzamenti a picco sul mare, per guidare le barche in mare in direzione del pescespada. Un linguaggio che passava da toni e frasi cantilenanti (và fora, và intra, di suso, di terra) a toni drammatici, man mano che il luntri si avvicinava all’agognata preda.
Segnalato il pescespada, il nero luntri sotto la spinta dei rematori scivolava veloce sull’acqua, mentre il faleroto posto sul “falere” (il piccolo albero centrale) indicava la direzione da seguire. Il fiocinatore, diritto sulla poppa, non appena si trovava a qualche metro dalla preda, afferrava l’arpione posto sulle maschitte e con abilità e perizia colpiva, allora come oggi inesorabilmente “il re dello Stretto”. Il pescespada infiocinato, cercando di divincolarsi, si dava a lunghe ed estenuanti fughe fino morire dissanguato. Se la preda è femmina, la stessa fine fa il maschio in quanto segue la compagna fino alla fine. Oggi i pescatori operano sulle imbarcazioni a motore munite della lunghissima “passerella” (anche 50 m) alla cui estremità si pone il fiocinatore e dell’altissima “antenna”, dalla quale a più di 20 metri di altezza la barca può essere anche pilotata.
Ancora oggi, alcuni tipi di pesca, come la caccia del pescespada, si confondono armonicamente con ataviche tradizioni, retaggio di culture marinare del passato. Culture, a volte molto legate alla religione. Rituali propiziatori e religiosi, patrimonio culturale di antichi popoli che sopravvivevano esclusivamente grazie allo sfruttamento della fauna ittica, molto spesso vengono evocati anche durante l’attuale caccia al pescespada: il pesce dopo essere stato issato in barca viene graffiato all’altezza dell’occhio con segno di croce, mentre viene pronunciata la frase propiziatoria “a nomi i centu !”.
Il mare dello Stretto è quello sul quale da sempre si sfidano l’uomo-cacciatore ed il pescespada-preda.